A seguire una traduzione dell’articolo pubblicato su Border Criminologies, a cui si rimanda al seguente link: Forced Mobility and the Hotspot Approach: The Case of the Informal Disembarkation Agreements
Il presente articolo è il risultato dell’attività di monitoraggio condotta da ASGI nei luoghi di frontiera in Sicilia nell’ambito del progetto In Limine. Il suo obiettivo è analizzare da una prospettiva critica le implicazioni giuridiche e politiche dei meccanismi di “redistribuzione” dei migranti sbarcati in Italia a seguito di operazioni di soccorso in mare (SAR), di come si inseriscono all’interno dell’approccio hotspot e delle pratiche di selezione e detenzione dei migranti nelle zone di frontiera.
Il sistema hotspot è stato solo recentemente e parzialmente disciplinato dalla legge n. 46 del 2017 (art. 17). Ciò ha determinato il prodursi di pratiche e procedure molto diversificate nelle differenti strutture e nel corso del tempo. Gli hotspot hanno assunto funzioni diverse a seconda delle esigenze che le politiche di contenimento della mobilità migrante hanno di volta in volta assunto come prioritarie. È questo, ad esempio, il caso dell’hotspot di Taranto, usato già a partire dal 2016 per il trasferimento forzato e l’identificazione delle persone che tentano di attraversare la frontiera fra Francia e Italia. Immaginati come dispositivi “flessibili” in grado di rispondere rapidamente alla pressione dei flussi migratori alle frontiere esterne dell’Ue, gli hotspot sono oggi uno strumento indispensabile per garantire l’efficacia degli accordi per la “redistribuzione” delle persone soccorse nel Mediterraneo, anche attraverso la limitazione della loro libertà personale. Gli accordi hanno l’obiettivo di ricollocare i cittadini stranieri sbarcati a seguito di operazioni SAR in diversi stati membri. A partire dal luglio 2018 questi accordi sono stati posti in essere, in deroga al Regolamento Dublino, per gestire gli arrivi di migranti in Italia e Malta in risposta alla politica dei “porti chiusi” adottata dal precedente governo italiano.
Tali accordi sono il risultato di lunghi negoziati tra gli stati europei coordinati dalla Commissione europea e finalizzati a far fronte al rifiuto di Malta e dell’Italia ad autorizzare lo sbarco delle persone soccorse in mare da imbarcazioni civili e, in alcune occasioni, militari. Come è stato documentato, tali pratiche hanno costretto i naufraghi a rimanere sulle navi di soccorso per diversi giorni, in aperta violazione delle leggi internazionali, e hanno alimentato i processi di criminalizzazione delle ONG che effettuano soccorso in mare. Secondo le dichiarazioni pubbliche dei governi italiano e maltese, le mancate autorizzazioni agli sbarchi mirano a fare pressione sugli altri stati membri e sulle istituzioni europee affinché si condivida la responsabilità nella gestione delle migrazioni nello spazio europeo. Le procedure che seguono gli “accordi di redistribuzione” avviati dagli stati su base volontaria e attraverso negoziati che, per quanto è dato conoscere, sono generalmente informali e ad hoc, sono segnate da criticità in termini di rispetto dei diritti fondamentali delle persone che vi sono sottoposte. I richiedenti asilo infatti non hanno alcun diritto a decidere se seguire o meno la procedura né possono stabilire il paese di destinazione. La base volontaria di tale meccanismo è confermata dal working paper pubblicato dal Consiglio il 12 giugno 2019 e dall’Accordo di Malta del 23 settembre 2019.
Il caso della Sea-Watch 3 e delle procedure di redistribuzione attuate nell’hotspot di Messina a febbraio 2019
Una volta sbarcate nel porto di Catania il 31 gennaio 2019, le 32 persone adulte a bordo della Sea-Watch 3 sono state condotte nel centro hotspot di Messina, dove sono state informalmente trattenute per due giorni durante i quali non gli è stato possibile comunicare con l’esterno né incontrare il legale da loro nominato mentre erano a bordo della nave della ONG.
Da allora hanno preso avvio le procedure volte alla loro redistribuzione in Francia, Germania, Lituania, Romania, Portogallo e Lussemburgo, senza che fossero stabiliti criteri chiari per la selezione e senza che venisse garantita la possibilità di chiedere asilo in Italia.
EASO ha condotto le prime interviste finalizzate ad assegnare i richiedenti asilo agli Stati membri, in base alle competenze linguistiche e ai legami familiari. Nonostante il coinvolgimento di questa agenzia e della Commissione europea, una volta che l’EASO ha fornito agli stati membri la lista dei richiedenti asilo di loro competenza, questi hanno organizzato le procedure successive autonomamente, stabilendo se, come e quando condurre interviste con i cittadini stranieri. Le domande poste durante le interviste dalla delegazione francese concernevano sia le ragioni dell’emigrazione e le persecuzioni subite nel paese di origine, sia informazioni relative alla fede religiosa e alla cultura. È stato chiesto ai richiedenti asilo di esprimersi sull’uso del velo, sul rispetto dei pilastri dell’Islam, sul numero di preghiere quotidiane, sulle pratiche di mutilazione genitale femminile, all’interno di una valutazione di “compatibilità culturale”. Dall’altro lato, alcuni paesi, come la Romania, non hanno condotto interviste e hanno preso in carico le persone che non erano state selezionate dagli altri stati.
Terminata questa fase, i cittadini stranieri hanno formalizzato la richiesta di asilo e l’Unità Dublino italiana ha ordinato il trasferimento in base all’art. 17 c. 1 del Regolamento Dublino (clausola di sovranità). Secondo tale norma ogni stato può decidere di esaminare una richiesta di asilo anche se non sarebbe responsabile in base ai criteri stabiliti dal Regolamento. La presa in carico della domanda non segue una richiesta da parte del cittadino straniero o da parte dello stato competente. La necessità del consenso da parte della persona trasferita non è espressamente prevista, a differenza di quanto avviene per la clausola umanitaria. Ad ogni modo, nei casi analizzati, ai richiedenti asilo è stato chiesto di firmare una dichiarazione generica di consenso al trasferimento prima di lasciare l’Italia.
Le maggiori criticità dell’attuale sistema di sbarco/redistribuzione
L’accordo raggiunto a Malta il 23 settembre ambisce a creare un sistema maggiormente prevedibile di condivisione della responsabilità al fine di evitare la necessità di negoziare accordi specifici per ogni operazione di soccorso. Il testo, condiviso da Germania, Francia, Italia e Malta riafferma la natura volontaria delle procedure di redistribuzione e prevede un ruolo centrale della Commissione e delle agenzie UE (EASO e Frontex). Il testo stabilisce la pratica di sbarcare le persone soccorse nei paesi di bandiera e stabilisce che la base giuridica per i trasferimenti sia l’art. 17 c. 2 (clausola umanitaria). Inoltre, sottolinea la necessità di adottare procedure operative standard (SOP) per i processi di redistribuzione che tuttavia non risolvono il problema dell’assenza di garanzie rispetto ai diritti fondamentali dei cittadini stranieri coinvolti. Infatti, il meccanismo che sembra emergere dalle procedure osservate, dalla Dichiarazione congiunta e dalle linee guida pubblicate dal Consiglio dell’Unione europea a giugno 2019, contiene alcune criticità.
In primo luogo questo meccanismo sembra essere strettamente collegato all’uso degli hotspot in un sistema di detenzione volto alla “selezione” e classificazione dei cittadini stranieri. Occorre notare che, in casi precedenti, la detenzione negli hotspot italiani e nei centri maltesi ha avuto luogo al di fuori delle previsioni legislative. In Italia, la detenzione può essere effettuata solo in presenza di determinate garanzie che non sono state rispettate nei casi menzionati, nei quali le persone sono state trattenute de facto per diversi giorni.
In secondo luogo, le procedure per la redistribuzione delle persone sbarcate in Italia e a Malta, che dipendono dalla volontarietà degli stati membri, vanno a sostituirsi alle procedure – per quanto controverse – disposte dal Regolamento Dublino. In questo modo si osserva uno scivolamento paradigmatico della modalità con la quale sono governate le migrazioni: da un piano di diritto – nel quale il diritto di difesa per le persone coinvolte è, almeno formalmente, garantito- a un approccio caratterizzato dall’informalità, volontarietà al posto di obblighi e accesso a “programmi” al posto di diritti.
L’assenza di base giuridica per tali accordi e la mancanza di trasparenza rispetto alle procedure e ai criteri seguiti, porta di fatto a un’impossibilità per le persone coinvolte di accedere a meccanismi di difesa.
Infine, in queste situazioni avviene una doppia forma di selezione dei cittadini stranieri all’interno degli hotspot: da un lato le persone sono classificate come richiedenti asilo o come “migranti economici”, dall’altro le procedure di assegnazione condotte da EASO e la selezione svolta dalle delegazioni degli stati membri mirano a selezionare i “profili” che, per ragioni culturali, linguistiche o lavorative, incontrano la richiesta dei diversi stati. Questa modalità di selezione non è prevista da alcuna normativa europea. Sembrerebbe quindi che vi siano forme di accesso e inclusione che seguono criteri non formalizzati finalizzati a soddisfare la richiesta degli stati membri che aderiscono volontariamente agli accordi di redistribuzione. In tali procedimenti di assegnazione e selezione i cittadini stranieri non hanno alcun potere contrattuale, con l’eccezione della possibilità, più formale che sostanziale, di non firmare il consenso al trasferimento.
A sua volta, il working paper del Consiglio dell’Unione Europea del 12 giugno chiede all’EASO di sviluppare criteri oggettivi per l’assegnazione ma lascia agli stati membri la possibilità di definire i profili delle persone che intendono prendere in carico.
Si ritiene che gli sforzi fatti dagli stati membri e dalle istituzioni europee per creare nuovi meccanismi di redistribuzione direttamente connessi con gli sbarchi possa dar luogo a sistemi non sufficientemente formalizzati e gravati dalle criticità viste sopra. Questo potrebbe provocare inoltre un ulteriore rallentamento nel processo di riforma del Regolamento Dublino e comportare la violazione dei diritti delle persone soccorse in mare, prima e dopo lo sbarco.