Il sistemico sovraffollamento dell’Hotspot di Lampedusa e le disumane condizioni di trattenimento informale a cui sono sottoposti le cittadine e i cittadini stranieri ristretti nella struttura, che nei mesi estivi arriva ad ospitare più del quadruplo delle persone previste dalla capienza attuale di 250 unità, sono ormai noti. E’ di fine agosto la notizia[1] della convocazione di un vertice e della successiva apertura di un’inchiesta da parte della Procura di Agrigento al fine di valutare le condizioni igienico-sanitarie del centro, anche in seguito al deposito di un esposto da parte del comitato lampedusano di Legambiente in merito al degrado e all’inquinamento ambientale causato dallo sversamento degli scarichi fognari non depurati del centro nella valle circostante la struttura.
Ugualmente note[2], nell’ambito del c.d. approccio Hotspot, risultano ormai essere le prassi sistematiche di ostacolo nell’accesso alla procedura di richiesta di protezione internazionale e ad altri diritti in frontiera, tra cui l’assenza di meccanismi di referral strutturati per quanto riguarda le categorie vulnerabili, in particolare persone sopravvissute a tratta e violenza di genere.
La mancata considerazione sistematica della prospettiva di genere in tutte le politiche e le azioni[3] non è rinvenibile solo nell’assenza di meccanismi di referral strutturati su le categorie vulnerabili, e nella mancata o inadeguata implementazione della normativa a tutela delle persone sopravvissute a o a rischio di esperire violenza di genere come vedremo in seguito, ma anche nella scarsità o indisponibilità di dati disaggregati sull’identità di genere, il cosiddetto gender data gap, relativi agli arrivi via mare e alla permanenza nei vari Hotspots. Nulla infatti dice in merito al sesso e al genere delle persone sbarcate e transitate per le strutture gestite dalla Direzione Centrale dei servizi civili per l’immigrazione e l’asilo il cruscotto statistico pubblicato giornalmente dal Ministero dell’Interno[4]. Per reperire i pochi dati disaggregati sull’identità di genere delle persone sbarcate lo scorso anno bisogna far riferimento al Fact Sheet[5] pubblicato nel dicembre 2020 dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, il quale rielabora dati forniti dal Ministero dell’Interno e apparentemente non rinvenibili autonomamente sulla sezione Ufficio Centrale di Statistica del sito del Ministero dell’Interno: il 6% delle 34.000 persone sbarcate nel 2020 in Italia è donna (e il 19% è composto da minori, accompagnati e non). Dunque lo scorso anno 2040 donne hanno fatto ingresso in Italia via mare, ed è presumibile che la maggior parte di esse sia transitata per gli Hotspots. Tale dato, non presente tra quelli forniti dall’UNHCR, può essere reperito nella rielaborazione dei dati contenuta nella Relazione al parlamento 2021 del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale: delle 19.874 persone transitate nell’Hotspot di Lampedusa nel 2020, 1.275 (6.4%) erano donne e 3.392 minori (accompagnati e non). Assume rilevanza nell’analisi della rispondenza alla realtà di tali dati il numero sopracitato relativo ai minori, accompagnati e non, poiché non disaggregato in base al genere né nel documento di UNHCR né in quello del Garante Nazionale. Anche i numeri forniti nel settembre 2021 dalla Prefettura di Agrigento in risposta ad un accesso civico generalizzato del progetto In Limine non risultano disaggregati, per quanto riguarda i minori, in base al genere. Dagli stessi si può tuttavia rilevare un significativo aumento della presenza di donne tra le persone transitate nella struttura di Lampedusa dal 1 luglio al 27 settembre 2021: il 16.89% delle 14.422 persone trattenute illegittimamente nell’Hotspot nel periodo indicato è donna (1225). Per una lettura più esaustiva, a queste 1225 deve aggiungersi il dato relativo ai minori, accompagnati e non, transitati nel centro dell’isola, 2436, poiché, come già detto, non disaggregato in base al genere.
E ciò a fronte di una normativa nazionale – significativamente influenzata dal diritto europeo e internazionale, che a sua volta muove dal riconoscimento che “la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione” e riconoscendo “la natura strutturale della violenza contro le donne, in quanto basata sul genere, e riconoscendo altresì che la violenza contro le donne è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini”[6] – che, seppur certamente migliorabile ed estensibile, soprattutto per quanto riguarda l’effettiva implementazione della stessa e la quantità di risorse investite, dispone già un’ampia tutela delle persone sopravvissute a tratta e violenza di genere, mediante l’istituzione di specifici meccanismi e dispositivi, attribuendo alle competenti autorità una significativa responsabilità in termini di identificazione preliminare delle persone sopravvissute a o rischio di esperire violenza di genere (a maggior ragione se presenti in una struttura governativa come quella di Lampedusa dove viene praticata sistematicamente la detenzione informale delle cittadine e dei cittadini stranieri), della eventuale necessaria messa in immediata sicurezza delle stesse, di informativa circa i propri diritti da fornire loro, dell’incanalamento delle stesse in procedure prioritarie sia per quanto riguarda l’identificazione formale che per il trasferimento dall’Hotspot, di riconoscimento alla stesse del periodo di riflessione, e del loro referral ad enti specializzati. [7]
Tuttavia, le risultanze delle attività di monitoraggio dell’Hotspot di Lampedusa realizzate nell’ambito del progetto In Limine, rivelano una realtà applicativa ben distante dal quadro delineato dalla normativa sopracitata e confermano la mancata considerazione sistematica della prospettiva di genere nell’implementazione delle politiche migratorie e nell’accesso ai diritti in frontiera.
Un’analisi in una prospettiva di genere dello specifico contesto di Lampedusa impone di evidenziare alcuni profili specifici. Se infatti l’aggravamento, causato dalle condizioni di sistematico sovraffollamento della struttura, delle prassi di selezione immediata e classificazione informale delle cittadine e dei cittadini stranieri in richiedenti protezione internazionale, da indirizzare verso le procedure di accoglienza, e non richiedenti protezione, da indirizzare verso le procedure propedeutiche al rimpatrio, riguarda la totalità delle cittadine e dei cittadini stranieri ristretti nella struttura di Lampedusa, il forte sovraffollamento, la convivenza promiscua, la condivisione dei bagni, la prevalenza di personale delle FFOO di genere maschile, l’assenza di luoghi dove svolgere colloqui in setting protetto, il mancato accesso ad un’adeguata mediazione e informativa e a meccanismi strutturati di identificazione e referral, espongono le donne ad un rischio elevato di esperire (in alcuni casi, ulteriori) violenze. Tali gravi lacune rischiano inoltre di pregiudicare significativamente la determinazione delle donne che intendono chiedere protezione alle autorità poiché fuggono da un vissuto di violenza di genere (sono controllate da una rete di tratta, esperiscono violenza domestica, o, subiscono abusi) o a causa delle sopracitate condizioni, esperiscono un incidente o un abuso o non si sentono al sicuro all’interno della struttura. Si noti che l’articolo intende concentrarsi solo sulle donne, pur nella consapevolezza che il potenziale impatto dell’esposizione a tali condizioni è intersezionale, e interessa, tra gli altri, anche persone disabili, anziane, queer o persone della comunità LGBTQI, e minori accompagnati e non.
Le donne che giungono sull’isola, in alcuni casi sole e/o minori, e comunque già provate dal vissuto che ne ha determinato l’espatrio e dal difficile e pericoloso tragitto compiuto per raggiungere l’Italia, si ritroverebbero costrette a dormire per giorni all’esterno, su materassi di gommapiuma posizionati direttamente per terra, in prossimità di uomini estranei al proprio nucleo familiare, in condizioni di promiscuità[8]. La condizione di forte insicurezza risulta ulteriormente amplificata dalla promiscuità e insufficienza dei bagni disponibili. Dalle testimonianze raccolte nell’ambito delle attività del progetto In Limine, risulterebbe infatti che per le centinaia di persone che arrivano ad occupare l’area esterna in caso di forte sovraffollamento siano presenti solo due bagni alla turca, sprovvisti di lucchetto interno e quindi inefficaci nel garantire la privacy e la sicurezza delle donne che li utilizzano. Anche una volta terminata l’attesa nell’area esterna, che come menzionato può arrivare a durare giorni, e autorizzate ad accedere all’area interna della struttura, le donne si troverebbero in balia del gruppo a cui sarebbe de facto delegata la suddivisione dei posti letto, non venendo operata un’assegnazione formale da parte del personale del centro, e a dover condividere stanze e bagni (che anche all’interno risultano essere insufficienti a garantire i bisogni di quanti effettivamente ivi ristretti, e sprovvisti di lucchetto interno) con uomini non appartenenti al proprio nucleo familiare. In un contesto caratterizzato da tali gravi criticità nessun meccanismo di identificazione delle vulnerabilità e di successivo referral, che dovrebbe essere implementato con il supporto del team dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) come previsto dalle Procedure Operative Standard (SOPs) applicabili agli Hotspots[9], può risultare adeguato ed efficace.
“In hotspot è difficile individuare le persone vittime di violenza o vittime di tratta: c’è la polizia, l’ambiente è quello di un centro di identificazione; i minori peraltro non dovrebbero passare per gli hotspot, è un contesto non adeguato. Nell’hotspot, percepito come luogo di vera e propria detenzione, le persone hanno paura” (Testimonianza di due operatrici contenuta nel report Donne in Rete contro la violenza, Progetto Samira: per un’accoglienza competente e tempestiva di donne e ragazze straniere in situazione di violenza e di tratta in arrivo in Italia, novembre 2017[10]).
Tale grave e strutturale promiscuità, unitamente al sistemico sovraffollamento dell’Hotspot, alla permanenza molto spesso prolungata, agli ostacoli posti dalla prassi nell’accesso alla procedura di protezione internazionale e/o alla tutela necessaria, favorisce un generale clima di insicurezza e aumenta il rischio che le donne siano esposte alla reiterazione della violenza. Tale preoccupante quadro è confermato dal rapporto del GREVIO sull’attuazione della Convenzione di Istanbul da parte dell’Italia, pubblicato nel gennaio 2020[11], che denuncia le importanti lacune degli Hotspots – in termini di strutture sovraffollate e promiscue, assenza di spazi privati per colloqui riservati e di spazi sicuri e bagni separati, numero insufficiente di mediatori culturali e interpreti, non uniformità e mancata applicazione della valutazione di vulnerabilità previste formalmente dalla normativa e dalle procedure operative standard (SOPs) del Ministero dell’Interno, assenza di opportunità formative specifiche sulla tematica per il personale, mancanza di specializzazione all’interno degli enti gestori, elevata rotazione del personale, accesso limitato o non accesso da parte degli enti specializzati in violenza di genere – ed i pericoli che rappresentano per le donne e le ragazze in termini di esposizione alla reiterazione della violenza, di accesso alla protezione e di refoulement nel paese d’origine.
La mancata strutturazione di adeguati ed efficaci percorsi di identificazione e referral e la mancata implementazione di quanto già previsto dalla normativa a tutela delle persone sopravvissute a o a rischio di esperire violenza di genere e/o comunque appartenenti alla categoria dei vulnerabili non risulta dunque essere frutto di situazioni contingenti ed emergenziali (non potendosi tra l’altro attribuire a tali circostanze nemmeno il sovraffollamento dell’Hotspot, le condizioni disumane di detenzione informale e la frequente violazione dei diritti fondamentali di quante e quanti vi sono trattenuti alla luce della sistematicità di tali criticità che appaiono invece essere proprio connaturate all’approccio Hotspot) quanto il risultato diretto della omessa integrazione di una prospettiva di genere nelle politiche di frontiera e, quindi, nell’organizzazione e gestione della struttura di Lampedusa e dei servizi che ivi dovrebbero essere garantiti alle persone che vi sono trattenute, da parte delle autorità competenti.
Integrare una prospettiva di genere al contesto di Lampedusa impone una totale messa in discussione dello stesso approccio Hotspot, con la definitiva cessazione delle prassi sistematiche di ostacolo nell’accesso alla protezione ed altri diritti in frontiera (garantendo, inter alia, alle donne in tutti gli stadi della propria permanenza nell’Hotspot adeguate informazioni circa i propri diritti) e di trattenimento informale delle cittadine che vi transitano, della stessa struttura di Contrada Imbriacola e delle procedure ivi applicate al fine di renderle sensibili alle questioni di genere (parificando, solo per citare qualche esempio, la presenza di personale di genere femminile a quella maschile, sia per quanto riguarda le FFOO che l’ente gestore, incrementando significativamente il numero dei bagni disponibili e la sicurezza degli stessi, garantendo alle donne un numero sufficiente di bagni a loro esclusivamente dedicati, creando spazi protetti per lo svolgimento dei colloqui) anche attraverso la formazione del personale ivi operante e l’adozione dell’approccio multi-agenzia e del conseguente coinvolgimento dei servizi sociali, sanitari, dei centri antiviolenza e delle organizzazioni non governative specializzate in tematiche di genere. E’ evidentemente imprescindibile che tali misure vengano supportate da adeguate risorse finanziarie affinché risultino effettivamente implementabili e non restino inattuate come molte delle disposizioni a tutela delle persone sopravvissute a o rischio di esperire violenza di genere già presenti nel nostro ordinamento.
[1] ilSicilia.it, Migranti, esito vertice Procura di Agrigento: rischio sanitario in Hotspot, 30 agosto 2021, https://www.ilsicilia.it/migranti-esito-vertice-procura-di-agrigento-rischio-sanitario-in-hotspot/
[2] Vedasi, inter alia: Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, Ombre in frontiera – Politiche informali di detenzione e selezione dei cittadini stranieri, Report del progetto In Limine, marzo 2020, http://www.asgi.it/wp-content/uploads/2020/04/Ombre-in-frontiera.-Politiche-informali-di-detenzione-e-selezione-dei-cittadini-stranieri-2.pdf; Denaro, Chiara, Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, Politiche di (ri)confinamento in tempo di pandemia: l’utilizzo di “navi quarantena” in Italia e l’accesso al diritto di asilo, Fascicolo n. 2/2021, https://www.dirittoimmigrazionecittadinanza.it/saggi/760-politiche-di-ri-confinamento-in-tempo-di-pandemia-l-utilizzo-di-navi-quarantena-in-italia-e-l-accesso-al-diritto-di-asilo/file;
[3] European Institute for Gender Equality (EIGE), Integrazione della prospettiva di genere in tutte le politiche e azioni a tutti i livelli, Glossary & Thesaurus, https://eige.europa.eu/thesaurus/terms/1185?lang=it;
[4] Ministero dell’Interno, Cruscotto statistico giornaliero, http://www.libertaciviliimmigrazione.dlci.interno.gov.it/it/documentazione/statistica/cruscotto-statistico-giornaliero;
[5] United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR), Italy Fact Sheet December 2020, 20 gennaio 2021, https://data2.unhcr.org/en/documents/details/84333;
[6] Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, 2001, https://rm.coe.int/16806b0686;
[7] Vedasi, inter alia: artt. 18, 18-bis e 19 c. 1 e 1.1 D.Lgs. 286/1998; L. 11 agosto 2003, n. 228; L. 27 giugno 2013, n. 77; D.Lgs. 4 marzo 2014, n. 24; D.Lgs. 142/2015 (in particolare art. 9 c. 4ter, art. 10, art. 7 c. 5, art. 10, e art. 17); Linee guida per l’identificazione delle vittime di tratta tra i richiedenti protezione internazionale e procedure di referral della Commissione Nazionale per il Diritto d’Asilo e dell’UNHCR; Procedure Operative Standard (SOP) – Hotspot del Ministero dell’Interno.
[8] Hotspot di Lampedusa sempre più un luogo di confinamento, chiuso anche il buco nella recinzione, In Limine, 18 agosto 2021, https://inlimine.asgi.it/hotspot-di-lampedusa-sempre-piu-un-luogo-di-confinamento-chiuso-anche-il-buco-nella-recinzione/;
[9] Ministero dell’Interno, Procedure Operative Standard (SOPs) applicabili agli Hotspots italiani, http://www.libertaciviliimmigrazione.dlci.interno.gov.it/sites/default/files/allegati/hotspots_sops_-_versione_italiana.pdf
[10] https://www.direcontrolaviolenza.it/wp-content/uploads/2018/04/Report-Samira_web_ridotto.pdf
[11] GREVIO, Rapporto di valutazione di base – Italia, gennaio 2020, http://www.informareunh.it/wp-content/uploads/GREVIO-RapportoValutazioneItalia2020-ITA.pdf, vedasi anche le raccomandazioni alle autorità competenti;